LE REGOLE DELLA SUSSIDIARIETÀ
Da punto di vista sociologico il terzo settore si configura come un soggetto
autonomo delle dinamiche societarie e ciò gli deriva dal presentare cultura,
normatività, operatività e ruolo sociale suoi propri: è l'ambito della
solidarietà, che segue regole di scambio diverse da quelle del mercato e dello
Stato e si struttura in forme organizzative peculiari, finalizzate sì (come lo
Stato) alla realizzazione del "bene comune", ma diversificandosi dallo Stato
perchè specializzata nella produzione di "beni comuni relazionali". I quattro
poli dell'attuale assetto societario trovano una corretta rappresentazione
all'interno del classico schema parsonsiano AGIL, rivisitato in un'ottica
relazionale, in base alla quale il rapporto tra tutti gli attori non è
gerarchico, ma paritetico e regolato da una relazione di sussidiarietà.
IL "CHI È" DEL TERZO SETTORE
Utilizzando i dati provenienti da un'indagine comparata basata su parametri
prevalentemente economici, il terzo settore risulta avere in Italia dimensioni
di tutto rispetto, impiegando circa 418.000 unità di lavoro standard retribuite,
cioé l'1,8% del totale degli occupati nel nostro paese, più all'incirca 273.000
volontari, 15.000 obiettori di coscienza, 16.000 persone distaccate dal proprio
datore di lavoro, che sommati ai lavoratori retribuiti, fanno toccare al settore
nonprofit il 3,1% dell'occupazione totale nazionale (Barbetta, 1994: 6; 1996).
Altrettanto significative sono le spese complessive sostenute dal terzo settore,
che ammontano a circa 29.000 miliardi di lire (il 2,1% del PIL) (Barbetta, 1994:
6; 1996).
Secondo una ripartizione ormai classica, le diverse organizzazioni del terzo
settore in Italia possono essere di quattro tipi:
il volontariato organizzato, la forma più tradizionale (sono 8.893 le
organizzazioni censite nel 1994 dalla Fondazione Italiana per il Volontariato);
la cooperazione sociale, la formula caratteristica del contesto italiano (sono
1.926 le cooperative sociali, secondo i dati aggiornati al giugno del 1993 della
Lega Cooperative e della Confcooperative);
l'associazionismo pro-sociale o sociale, lo strumento nuovo, che preme verso un
riconoscimento sociale più ampio (il 28% dei soggetti tra i 18 ei 74 anni,
sarebbe impegnato in un'associazione secondo i dati Iref del 1989);
le fondazioni pro-sociali o di utilità sociale, un tipo di attività decisamente
stabile, che ha rappresentato il canale classico dell'intervento sociale in
Italia fino ad alcuni decenni fa, e che costuitiscono un'incognita pressoché
totale sotto il profilo della conoscenza sociologica (Boccacin, 1996: 76-77).
Negli ultimi anni ciascuna di queste forme organizzative di terzo settore si è
ritagliata segmenti diversi nel terzo settore italiano (Cecop-Cgm, 1995: 89-90):
mentre il volontariato organizzato (Rossi, Boccacin,1996) si è distinto per la
capacità predisporre servizi difficilmente vendibili, nei quali si offre
soprattutto ÇrelazionalitàÈ, la cooperazione sociale è decollata laddove era
necessario fornire servizi che richiedevano complessità organizzativa e
professionalità (con l'impiego di lavoratori retribuiti). Per quanto concerne,
poi, l'associazionismo pro-sociale (Maccarini,1996) che non ha ancora una chiara
connotazione giuridica (non c'è ancora una precisa distinzione tra quello a
finalità sociali e quello per scopi privati), risulta a tutt'oggi il meno idoneo
ad operare imprenditorialmente. Il suo spazio specifico è quello di "favorire
azioni di reciprocità" (Cecop-Cgm, 1995: 89-90), senza vendere le proprie
prestazioni e con un utilizzo ridotto ai minimi termini di personale remunerato.
Negli ultimi anni si è verificata una crescita di attenzione per questa forma di
azione nonprofit , non solo da parte dei ricercatori, ma anche del sistema
politico e dell'opinione pubblica, come testimoniano le indagini dell'Iref
(1990, 1993). Le fondazioni pro-sociali, invece, escludendo quelle finalizzate
alla mera distribuzione di fondi per attività sociali, culturali, ecc.,
risultano essere le organizzazioni forse più "fortemente strutturate, capaci di
operare in modo continuativo e professionale e spesso legate in modo
determinante al patrimonio di un mecenate" (Cecop-Cgm, 1995: 90), anche se i
casi in cui gruppi di privati cittadini uniscono le forze per dar vita ad una
fondazione sono sempre più diffusi a conferma che la formula della fondazione
risulta ancora vincente nel nostro contesto (Boccacin,1996).
MA LO STATO SI ARROGA TROPPO
La farraginosità del percorso verso la creazione di una normativa che tuteli e
promuova le attività di terzo settore dipende soprattutto dall'assenza di un
approccio ÇintegraleÈ al problema. Così, come prodotto di un dibattito giuridico
che oscilla su obiettivi altalenanti, è nata una legislazione a compartimenti
stagni (da una parte associazioni e fondazioni, da un'altra organizzazioni di
volontariato, da un'altra ancora cooperazione sociale) che, facendo leva sulla
diversità di trattamento fiscale come fattore di promozione di alcune attività
rispetto ad altre, genera un "sistema" di ineguaglianze tra profit e nonprofit e
tra le stesse organizzazioni nonprofit.
Gli interventi legislativi vanno tutti nel segno di una legittimazione per via
istituzionale di un fenomeno che istituzionale non è, secondo modalità che,
anzichè introdurre criteri ispirati al principio di sussidiarietà, incrementano
la dipendenza e bloccano l'autonomia. Nel complesso, comunque, gli interventi
legislativi sul volontariato organizzato e sulla cooperazione sociale hanno il
pregio di giungere a una legittimazione di un ampio settore dell'attività
nonprofit, che "consente di formalizzare i rapporti con gli enti pubblici
togliendoli dal rischio della discrezionalità" (Boccacin, 1994a: 213), di
instaurare proficui rapporti di partnership tra settore nonprofit ed
istituzioni.
L'ultimo intervento legislativo sul terzo settore costituisce anche il primo
tentativo di accomunare in un unico provvedimento più tipologie non profit
(volontariato organizzato, cooperative sociali e organizzazioni non
governative). Nell'art. 3 della Legge collegata alla "Finanziaria" per il 1997
compare la Legge delega in materia di "organizzazioni non lucrative di utilità
sociale" (ONLUS): in cinque "commi" (dal 188 al 192) si esprime una definizione
dei soggetti che rientrano in tale categoria e si delineano i principi e i
criteri direttivi ai quali deve ispirarsi la disciplina tributaria alla quale i
medesimi soggetti devono assoggettarsi.
Tuttavia, la stessa collocazione della nuova normativa, nell'ambito della
"Finanziaria", indica che la strada da percorrere verso una piena comprensione e
valorizzazione del fenomeno è ancora molto lungo. Ancora una volta viene
utilizzato lo strumento della legge finanziaria per effettuare, in forma
"impropria" o quantomeno indiretta, interventi di politica sociale. Questa che
nel nostro paese comincia ad essere una prassi consolidata mette in risalto la
natura subordinata (e non sussidiaria) che le politiche sociali tuttora
mantengono in Italia rispetto alle politiche economiche. Nel tempo, tale
modalità genera un'acquiescenza nei confronti di uno stile programmatorio
totalmente fondato sui vincoli di bilancio che diventano, di fatto, il solo
criterio ordinatore delle politiche sociali (Rossi, 1993).
Venendo ad un'analisi più dettagliata dell'approccio della legge delega al terzo
settore, si possono fare alcune considerazioni critiche sintetiche:
Si evidenzia una forte posizione dello Stato centrale, che resta il referente
decisionale ultimo, mentre non viene stimolato un ruolo attivo delle Regioni o
degli Enti locali e/o degli organismi amministrativi periferici che potrebbero
realizzare una forma di controllo positiva, incentivante e non solo
inquisitoria. Lo Stato esprime anche una chiara volontà di arrogarsi il diritto
di definire i requisiti soggettivi delle attività di interesse collettivo di
finalità sociale: la relazione tra lo Stato ed il terzo settore emerge, così,
ancora una volta, nella prospettiva della subordinazione e non della
"sussidiarietà" (Koslowski 1997). Nel complesso, la relazionalità con il mercato
risulta essere debole. D'altra parte, in Italia la relazione tra terzo settore e
mercato è tuttora in una fase iniziale, e sembra seguire una via indiretta di
legame, mentre altrove (ad esempio in Gran Bretagna e in Germania) essa è
maggiormente consolidata e perseguita attraverso forme dirette di sostegno.
Il terzo settore viene a coincidere, nella legge delega, con le ONLUS. Comprende
le realtà che tradizionalmente sono in esso inscritte (volontariato, cooperative
sociali, organizzazioni non governative), mentre manca un riferimento esplicito
all'associazionismo sociale. La difficoltà ad arrivare ad una comprensione piena
del fenomeno del terzo settore in tutte le sue diverse espressioni dipende
probabilmente dalla mancanza di una legge quadro nazionale che affronti in modo
organico il problema dei presupposti e dei requisiti degli organismi che
afferiscono al terzo settore. La normativa non prevede, tra l'altro uno
specifico coordinamento tra soggetti diversi di terzo settore o soggetti che
operano in un medesimo ambito di intervento indebolendo in tal modo la loro
relazionalità "interna".
In conclusione, sulla strada verso la piena valorizzazione della soggettività
sociale del terzo settore restano parecchi ostacoli.
Risulta difficile ipotizzare che si possa perseguire un'effettiva promozione del
terzo settore nel suo complesso attraverso una norma di natura tributaria. Il
rischio è ancora quello di stabilizzarlo in una posizione residuale, proprio a
seguito di un intervento legislativo che si ferma alla questione fiscale. Il
dilemma fondamentale resta, così, quello tra sussunzione o sussidiarietà
rispetto allo Stato. Ed anche nel caso in cui la cultura istituzionale si
posizioni sul secondo principio, è necessario che non resti ad un puro livello
teorico, ma si trovino le soluzioni adeguate per trasformarlo in strumenti
tecnici di attuazione.